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Ufficio Stampa
Intervento del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni

Chiamati ad educare, non a litigare
Allegati Roma, 29 febbraio 2008
Oggi vorrei parlarvi della situazione e della storia di Mario e Caterina, due dei 500.000 studenti italiani che a giugno faranno l’esame di maturità. Sono nati nel 1989, mentre cadeva il muro di Berlino, 19 anni e 14 ministri della pubblica istruzione fa.

Mentre Mario e Caterina erano due poppanti già si faceva la prima riforma della scuola elementare: oggi, a 19 anni, hanno già sul groppone 14 ministri della scuola, 6 cambiamenti di linea politica e 6 riforme degli esami: 3 dell’esame di maturità, 1 dell’esame di quinta e 2 di quello di terza media.

Quando Mario e Caterina hanno finito le medie gli abbiamo chiesto di scegliere tra 912 diversi indirizzi di scuola superiore: nemmeno alla Nasa si può immaginare una cosa del genere. In compenso i risultati scolastici sono andati sempre peggio: dal 2000 al 2006 i poveri di competenze, cioè coloro che per l’Ocse stanno sotto alla sufficienza, sono aumentati di 7 punti percentuali.

I quindicenni con scarsa capacità di lettura, che nel 2000 erano il 18,9%, oggi sono il 26,4%: l’Italia in 6 anni è precipitata di 13 posti ed è passata dalla 20ma posizione tra i Paesi Ocse del 2000 alla 33ma del 2006. Le cose non vanno meglio per le competenze in matematica, dove di posti ne abbiamo persi 15 e siamo passati dalla 23ma alla 38ma posizione, e in scienze, dove siamo passati dalla 22ma alla 36ma posizione.

Un disastro: un crollo direttamente proporzionale alla furia riformatrice. Un disastro di fronte al quale sento il dovere di dire: BASTA. La scuola non può essere il terreno di battaglia delle opposte fazioni politiche. La scuola non può essere un perenne Colosseo.

Quest’anno, ad aprile, votano per la prima volta i ragazzi nati nell’89: da allora non solo è crollato il muro di Berlino e sono crollate le ideologie che hanno diviso l’Italia, ma è cambiato tutto il mondo.

E allora vi chiedo: se crolla tutto, se crolla anche il Festival di Sanremo è pensabile continuare a dividersi per partito preso sul tema_cardine intorno al quale questo Paese dovrebbe unirsi per far ripartire l’economia, la ripresa, lo sviluppo, cioè L’EDUCAZIONE, LA SCUOLA?

SONO MATURI I TEMPI PER PRENDERE UN IMPEGNO SU ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI. Qui non si tratta di fare né larghe intese né inciuci né, come va di moda dire adesso, pastrocchi in salsa “ma-anchista”: noi siamo chiamati ad educare e non a litigare.
Facciamo un patto: chiunque vinca metta al primo posto il tema dell’educazione e della scuola.

Io non voglio difendere la mia riforma anche perché di riforme non ne ho fatte. In questi 20 mesi ho raccolto alcuni Sos che la scuola stessa ha lanciato e ha chiesto di raccogliere:

1) riportare serietà e merito (scopo fondamentale della scuola è che i ragazzi apprendano, conoscano) perchè “non c’è peggiore ingiustizia che trattare in modo uguale persone diseguali” (don Milani).

2) realizzare una vera autonomia delle scuole che significa prima di tutto autonomia finanziaria e di gestione del personale, rafforzandone il sistema di governo delle singole scuole in funzione dell’efficacia di risultati valutabili.

3) completare la realizzazione di un sistema di istruzione integrato statale e non statale (parità) che, facendo leva sul principio di sussidiarietà (che non è né il semplice decentramento, né la libanizzazione della scuola) valorizzi quello che c’è di buono, da qualunque parte arrivi, all’interno di un quadro di riferimento comune, garantendo alle famiglie la possibilità di essere aiutati nel proprio compito educativo a prescindere dalla propria condizione economica.

4) Ripensare ad un nuovo sistema di formazione, reclutamento e carriera dei docenti, realizzando finalmente quello che a tutti è chiaro e cioè che la buona scuola la fa il buon insegnante.

Sono arrivato al Ministero della Pubblica Istruzione da neofita ma in 20 mesi mi sono reso conto che la scuola è una grande lente di ingrandimento del nostro Paese: ci sono eccellenze e c’è un grande livellamento verso il basso; ci sono grandi disuguaglianze tra Nord e Sud e tra singole scuole; ci sono punte avanzate e ritardi, fissità, sclerotismi; ci sono riforme annunciate e mai fatte che hanno depositato uno strato di scetticismo difficile da scalfire, ma c’è anche un patrimonio umano e culturale straordinario che abbiamo l’obbligo morale ed ideale di mettere a frutto.

Non pensavo di affermare nulla di nuovo, dicendo che era necessario smetterla con il proliferare di progetti, dicendo che il cuore della scuola è l’educazione, il fatto che i docenti attraverso l’insegnamento della matematica, dell’italiano, della storia devono aiutare a crescere i loro studenti, accompagnandoli a cogliere il senso di quello che fanno. Mi sembrava semplice buon senso affermare che gli studenti hanno il diritto di imparare senza nascondersi dietro ipocrite sufficienze.

Quando ho detto queste cose, quando ho parlato di motivazione, serietà, rigore, merito, ho visto una scuola - o meglio degli insegnanti, dei dirigenti scolastici, degli studenti, delle famiglie - che ha risposto, ansiosa di uscire dal guado in cui ci troviamo. La crescita del nostro Paese o il suo declino si giocano nelle nostre aule.

Esiste un’emergenza educativa da mettere al primo posto nell’agenda del nostro Paese, perché ne va del futuro stesso della nostra società, e non è solo un problema di livello di conoscenze dei nostri studenti.

È vero, i dati delle ricerche internazionali e nazionali ci danno il quadro di un’Italia spaccata in due, con una scuola apparentemente uguale per tutti, ma in effetti fortemente discriminante, perché incapace di svolgere il suo ruolo di ascensore sociale, valorizzando eccellenze e talenti e nello stesso tempo garantendo equità.

La quota di laureati tra i figli dei ceti medio-alti è di 6 volte superiore a quella che si registra tra i figli dei ceti più bassi e la quota di lavoratori attuali che si colloca in una classe sociale più elevata rispetto a quella del padre è limitata al 31.7%.


Ma tutte queste analisi sono insufficienti: occorre interrogarsi con sincerità sulle origini di questa emergenza educativa e ricercare con determinazione la strada del rilancio.

Ad essere in crisi è la capacità stessa di un’intera generazione di educare i propri figli, di introdurli al vero, al bene, al bello, mettendo a frutto tutta la dote che ci viene dalla nostra tradizione culturale. In fondo, non sappiamo più che cosa dire ai nostri figli perché noi stessi abbiamo perso un quadro di riferimento, un’ancora d’appoggio, quell’orizzonte di senso entro cui muovere la nostra esistenza, su cui investire energie per costruire il presente e il futuro.

Il motore dello sviluppo del nostro Paese si è inceppato qui, sulle motivazioni di fondo, sulle ragioni stesse del vivere, del costruire, dell’impegnarsi.

Ed è il silenzio dei padri sulle questioni essenziali che frantuma la certezza dei figli. Mancano i padri.


Una recente indagine del Censis, fatta sul disagio adolescenziale nel Lazio, in cui era stato chiesto a ragazzi “a rischio” e ad altri di dare un proprio parere sulla figura paterna, ha rivelato che la presenza e l’attenzione del padre incide fortemente sulla resa scolastica e sulla condotta di vita dei ragazzi: ad esempio parla di un padre “presente quando serve” solo il 68% degli studenti a rischio e la percentuale sale all’86% per gli altri. Emerge in modo chiaro invece che la differenza tra i due gruppi di ragazzi cala quando la domanda riguarda l’autorevolezza del padre: il 41% dei ragazzi a rischio afferma di avere un padre autorevole e, per gli altri, la percentuale sale solo fino al 47,3 per cento. La verità è che solo un ragazzo su due ritiene autorevole il proprio padre.

L’assenza di questa figura costringe o a un’immaturità che si prolunga indefinitamente o a un naufragio tra le correnti della vita, affrontate senza bussola o punti di riferimento. Senza una bussola, senza un punto di riferimento chiaro e condiviso non si può educare, ma non si può neanche vivere in modo degno.

Se tutto è ammesso, se non c’è più differenza fra il bene ed il male, tra vero e falso, tra giusto e sbagliato, diventa difficile tutto: insegnare, far crescere un figlio, lavorare, far politica.

Siamo oltre il relativismo, siamo in presenza dell’affermazione che l’assenza di valori è un valore. Se tutto è indifferente, perché impegnarsi per conoscere, per migliorare, per rendere più “umana” la realtà? Umana rispetto a che cosa, se non c’è neanche più quel minimo comune denominatore costituito dall’affermazione del valore assoluto della persona, fondamento di civiltà? Se il “valore” è non aver valori, se l’unico orizzonte del proprio impegno sono i soldi, la carriera, il piacere ed il potere, su che base potremo dire o trasmettere qualcosa ai nostri figli?

Da dove ripartire, dunque?
Dal desiderio di investire sul vero, sul bene, sul bello. Nessuno può coscientemente desiderare il male, la falsità, l’ingiustizia, “l’immondizia” per i propri figli. Chiediamoci che cosa desideriamo per loro e saremo costretti a chiederci che cosa desideriamo veramente per noi stessi, per chi è dentro le mura di casa, ma anche per il nostro vicino.

Solo questo terreno potrà essere realmente “bipartisan”. Solo riconoscendo qualcosa di comune, che viene prima delle faziosità o degli interessi particolari, potremo lavorare insieme per costruire il nostro futuro e soprattutto quello dei nostri figli.




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aggiornato: 02/03/2010
 
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