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IO, EX BAMBINO DELLE ELEMENTARI E QUEL GIORNO DELLE LEGGI SULLA RAZZA
di Luciano Consigli


Caro Direttore,

le scrive un ex bambino di otto anni che, in un lontano venerdì 11 novembre 1938, divenne improvvisamente uomo.

Era il giorno in cui il "Corriere della Sera" pubblicò in prima pagina un lungo articolo che spiegava come "Le Leggi per la difesa della razza" fossero state approvate dal Consiglio dei Ministri.

Da quel giorno noi ebrei eravamo "altro e peggio" rispetto a tutti gli altri cittadini Italiani.

Le leggi, quelle cose da rispettare: ce lo insegnavano a noi bambini. Ma allora, perché mio padre e mia madre che erano due persone per bene e rispettose delle leggi quella sera si sono chiusi in camera e hanno parlottato tra loro con quel tono così malinconico?

Io non sapevo che da quel giorno gli ebrei "non possono prestare servizio militare, non possono esercitare l'ufficio di tutore, non possono essere proprietari di aziende interessanti per la difesa nazionale, non possono essere proprietari di terreni e fabbricati, non possono avere domestici ariani, devono essere espulsi dall'Italia se non sono cittadini italiani, non possono sposarsi con un cattolico/a italiano/a, non possono accedere agli impieghi statali, parastatali, di interesse pubblico, e nelle scuole..."

Nelle scuole, nella mia scuola, io che avevo otto anni e avevo fatto la seconda elementare e avevo vinto il Primo Premio Per Profitto, mi sono sentito dire: non vale perchè tu sei ebreo.

E io mi sono sentito scippato, mi sono sentito vittima di un'ingiustizia. Un'ingiustizia stabilita per legge.

Sono passati sessant'anni, e in un mercatino delle cose usate ho trovato una copia del "Corriere della sera" di quel giorno.

E, quel giorno, m'è tornato in mente. Mia madre mi disse:sei ebreo.
Sei ebreo significava, non per mia madre naturalmente, ma per il popolo italiano, per la legge del popolo italiano, sei diverso, inferiore, sei un nemico.

E il mio Premio, conquistato a scuola, che era un libro di quelli che se li apri si alzano le figure in cartoncino dei personaggi, non l'ho mai ricevuto.

E alla scuola con i miei amici non ci potevo più andare.

La mattina, noi ebrei di otto anni, non potevamo andare a scuola perché rischiavamo di contaminare, con la nostra presenza gli (ariani?) italiani.
Ma io ero italiano e lo sono e sono contento e orgoglioso di esserlo. Fatto sta che dall'11 novembre in avanti vado a scuola al pomeriggio. I miei compagni di classe sono tutti ebrei.
Gli insegnanti anche: professori universitari mandati a fare i maestri delle elementari.

Per me è stata una fortuna. Come è stata una fortuna che ci fosse gente come la signora Zucconi, quella del terzo piano, che diceva a suo figlio: Luciano, l'ebreo, è tuo amico, tutto il resto non conta.

E, intanto, gli intellettuali stavano zitti. Facevano finta di non sapere: è da lì che comincia il luogo comune per cui le leggi razziali in Italia erano una buffonata, nel senso che c'erano ma nessuno le rispettava.

E, invece, le rispettavano, eccome: per esempio, i miei genitori persero i diritti civili, compreso quello al lavoro. E finimmo tutti sul lastrico.

Ci era vietato anche possedere una radio e quando, a otto anni, sentivo quella dei miei amici ascoltavo o capivo cose di questo tipo: gli ebrei sono una razza di maleducati e prevaricatori, lo dicevano i gerarchi e anche il "democratico" Bottai.

Era il '38: il Reich tedesco annetteva l'Austria, in Spagna falliva l'ultima offensiva dei repubblicani, Hitler otteneva dalla Conferenza di Monaco il territorio cecoslovacco dei Sudeti, in Germania si scatenava la "notte dei lunghi coltelli".

E io, un bambino che due anni prima era un "figlio della lupa", non capivo perché improvvisamente ero diventato un figlio del Male, un ebreo "maleducato e prevaricatore". Non capivo perché se andavo in vacanza a Chiavari venivo cacciato perché quella era zona di importanza strategica e militare e io, ebreo, non potevo stare lì.

Poi c'è stata la guerra e gli ebrei erano costretti a fare le pulizie delle strade tra le risate dei passanti.

Poi è arrivato l'8 settembre e gli ebrei li portavano via e non tornavano più. Io sono ancora qui perché qualcuno avvisò mio padre: stasera, tu e la tua famiglia non tornate a casa, c'è un camion pronto per venirvi a prendere. Noi siamo scappati in un altro posto e io vedevo nella villetta di frotne al nostro rifugio gli ufficiali nazisti con le loro divise e li guardavo in silenzio.

Invece il mio amico Italo (Italo, lo avevano chiamato così i genitori ebrei: per amore dell'Italia in cui vivevano e di cui si sentivano parte) quel giorno è tornato a casa e lo hanno preso e lo hanno portato via e non è mai più tornato.

Se scrivo è perché, sessant'anni dopo, le leggi razziali non sono più nemmeno un ricordo, sembrano cancellate dalla memoria di noi italiani.

Ebbene, questo ex bambino di otto anni vi chiede: fermatevi un momento a pensarci, ditelo ai vostri bambini di otto anni che cosa è successo davvero quella volta. Non succederà più, d'accordo, ma, forse, è meglio sapere lo stesso come sono andate le cose.

Luciano Consigli, 68 anni, architetto - Milano
Corriere della Sera, 12 novembre 1998
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