Intervento del Ministro dell'Istruzione, dell'Università
e della Ricerca, Letizia Moratti, al convegno "Educazione, istruzione, lavoro: la questione del
capitale umano"
Milano, 27 aprile 2004
Sono lieta di partecipare a questo convegno su un tema che mi sta molto a cuore e che
è stato al centro del dibattito con i Ministri europei nel corso del Semestre di presidenza
italiana dell'UE conclusosi nel dicembre 2003: quello del capitale umano e del rapporto tra
educazione, istruzione e lavoro.
È un tema che ispira, ormai da quasi tre anni, tutta l'azione di Governo nei tre grandi settori
di competenza del Ministero a me affidato, la scuola, l'università e la ricerca, un'unica
filiera che deriva dagli stessi principi. Il capitale umano è la più grande ricchezza
del Paese, è la valorizzazione delle potenzialità di ciascun individuo, in senso umano,
culturale, sociale e professionale.
Permettetemi una premessa che chiarisce, attraverso i risultati di un'analisi da noi condotta sul
capitale umano nei 25 Paesi dell'Unione europea "allargata", alcuni aspetti dei problemi oggi
affrontati in questo convegno.
Si tratta di una ricerca sul patrimonio delle conoscenze, delle capacità e delle competenze
individuali rilevanti per l'attività economica, lo sviluppo e la stabilità
sociale.
Il valore del capitale umano in Europa e negli Stati Uniti
Sia nell'Unione Europea sia negli Stati Uniti, il valore del capitale umano rappresenta oltre la
metà del patrimonio nazionale.
In Europa, tuttavia, questo valore è ancora troppo basso: è infatti stimato in circa
250mila euro pro capite, contro i circa 500 mila euro degli Stati Uniti.
Il forte divario tra UE e USA è dovuto principalmente a quattro fattori:
- il tasso di occupazione (rapporto tra numero degli occupati e numero di individui che
rappresentano la popolazione attiva): 61% nella UE, 74% in USA;
- il livello retributivo europeo medio: inferiore del 49% a quello statunitense;
- il livello di educazione scolastica: la popolazione attiva europea ha un livello di istruzione
mediamente più basso rispetto agli USA;
- la durata della vita lavorativa: in Europa si lavora in media circa un anno e mezzo in meno
rispetto agli USA.
Tuttavia la differenza in termini di valore è compensata positivamente per
l'UE da un importante elemento di successo per lo sviluppo del capitale umano: l'Europa vanta,
rispetto agli USA, un maggior livello di coesione sociale e cittadinanza attiva, misurata in base ad
indicatori quali il livello di partecipazione alla vita democratica, il tasso di criminalità,
il tasso di inquinamento.
Capitale umano, coesione sociale e competitività
Il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca ha realizzato un progetto di
"policy making" su "Lo sviluppo del capitale umano per la coesione sociale e la
competitività".
Il progetto è:
- articolato in linee guida per il conseguimento di miglioramenti strutturali nella coesione
sociale e nella competitivitÀ nell'Unione Europea;
- volto a supportare lo sviluppo delle risorse umane e la crescita economica;
- incentrato sui bisogni di segmenti di "domanda" per rendere più efficienti gli
investimenti nella formazione nel contesto della strategia europea formulata nel 2000 dal Consiglio
Europeo di Lisbona per l'apprendimento permanente.
Il progetto si basa sull'analisi della popolazione attiva europea (circa 250 milioni
di persone tra i 19 e i 59 anni), segmentata secondo tre variabili fondamentali (età, stato
occupazionale, livello di istruzione) in 7 diversi segmenti: i "cluster".
L'analisi dettagliata dei singoli cluster ha portato all'individuazione delle loro
potenzialità di affermazione/integrazione nell'ambito produttivo e sociale e alla definizione
dei bisogni specifici di istruzione e formazione.
La strategia globale (la "mission policy") dell'iniziativa intende rafforzare il contesto europeo
dell'apprendimento permanente, definendo le priorità e le azioni sulla base dei bisogni
specifici dei segmenti della domanda, al fine di:
- sviluppare pienamente il valore potenziale delle risorse umane;
- accrescere la coesione sociale e la competitività;
- rendere più efficienti gli investimenti nell'istruzione.
Le politiche formative europee per l'apprendimento permanente costituiscono il punto
nodale per lo sviluppo sociale ed economico, ma, per essere davvero efficaci, devono essere sostenute
e integrate da politiche complementari, in particolare quelle per l'Occupazione e gli Affari sociali,
dell'Impresa, per la Ricerca e lo Sviluppo.
Sono quindi necessarie politiche specifiche per cluster, che dovranno:
- essere mirate al soddisfacimento dei bisogni specifici dei cluster, nell'ottica del lifelong
learning;
- favorire l'inclusione sociale per le categorie più svantaggiate;
- stimolare l'inserimento nel mondo del lavoro e l'orientamento verso le nuove professioni che si
svilupperanno nei prossimi anni in Europa, evitando le discrepanze tra professione svolta e tipo di
studi frequentato ("job mismatch").
La realizzazione delle azioni proposte dovrebbe portare a modifiche della dimensione
dei cluster (per effetto della "migrazione" di individui da un cluster ad un altro) e della loro
valorizzazione in termini di capitale umano (per effetto dell'incremento delle conoscenze e del
livello di professionalità degli individui), con il conseguente aumento del valore del
capitale umano europeo.
Fatta questa premessa, ritengo utile proporre alla vostra riflessione i motivi ispiratori della
nostra azione e i risultati già raggiunti.
La visione che ci deve ispirare
Dal dibattito di oggi traggo spunto innanzitutto per riaffermare alcuni profondi convincimenti che
hanno ispirato l'intero progetto di riforma del sistema educativo e formativo - scuola e
università - sul quale ci siamo così tenacemente dedicati in questo ultimo periodo:
- La dimensione educativa e formativa della società della conoscenza è fondata
sull'apprendimento permanente di ogni uomo e di ogni donna lungo l'intero arco della loro
vita;
- La visione comune deve essere quella di un sistema educativo unitario senza canali formativi di
tipo duale, cioè di una filiera lungo la quale tutti i soggetti formativi concorrono con
pari dignità allo sviluppo umano, culturale e sociale della persona umana;
- Il territorio deve esprimere tutte le sue grandi potenzialità, in parte ancora inespresse,
quale giacimento di risorse per lo sviluppo culturale e sociale;
- L'innovazione dei nostri sistemi economici e la coesione della nostra società sono legati
strettamente alla capacità che ogni cittadino acquisirà sin dalla scuola di base di
apprendere ad apprendere, cioè di saldare il "saper essere" al "saper fare", i valori morali
e spirituali alle competenze tecniche.
Se questa è la cornice del nostro quadro di riferimento, penso di poter
affermare che il processo di lento, ma continuo deterioramento tra le varie componenti del nostro
sistema educativo-formativo e il mondo del lavoro e della produzione, così come quello
altrettanto debole tra mondo della ricerca e mondo della produzione, si sta finalmente invertendo e
che vi sono numerosi indizi dell'avvio di un ciclo virtuoso di collaborazioni positive, di visioni
coerenti, di crescenti integrazioni tra politiche dell'educazione e politiche del lavoro, tra
politiche della ricerca e strategie per l'innovazione.
È possibile affermare oggi, per la prima volta dopo un lunghissimo periodo, che si sta
delineando anche in Italia una nuova visione unitaria "sociale" ed "economica" del processo
educativo, formativo e di ricerca destinata a produrre un modello organico ed integrato, stabilendo
la centralità dell'istruzione nelle strategie di crescita e sviluppo.
Dalle intenzioni ai fatti concreti
Non si tratta soltanto di buone intenzioni. Siamo passati ai fatti, alle azioni concrete che daranno
risultati misurabili e verificabili.
Il "Patto per l'Italia", sottoscritto dal Governo con le parti sociali nel 2002 e la "Legge Biagi",
varata lo scorso anno, sono stati i primi due atti politici che hanno indicato espressamente
nell'istruzione e nella formazione due strumenti indispensabili per assicurare una crescita
dell'occupabilità della popolazione attiva nel Paese ed un aumento della flessibilità e
dinamicità del mercato del lavoro.
A tempi più recenti risalgono le delibere prese dal Cipe che ha approvato importanti programmi
per lo sviluppo del Mezzogiorno nei quali gli interventi in materia di istruzione e formazione
vengono strettamente collegati con nuove strategie in materia di lavoro, mobilità
territoriale, ricerca e trasferimento tecnologico in una dimensione multiregionale.
Il tutto è ora inserito nella cornice della Finanziaria 2004 che, per la prima volta, prevede
investimenti stabili per finanziare lo sviluppo delle tecnologie multimediali, gli interventi di
orientamento contro la dispersione scolastica, gli interventi per lo sviluppo dell'istruzione e
formazione tecnica superiore e per l'educazione degli adulti.
Questi impegni politici sono stati presi tenendo ben presente quanto sfidanti sono alcuni degli
obiettivi che abbiamo sottoscritto e che il nostro Paese dovrà realizzare, ad esempio, entro
il 2010 nel campo dell'istruzione e della formazione:
- aumentare da 400mila a 4 milioni (+900%) il numero degli adulti in formazione
permanente;
- portare da 12mila a 30mila (+138%) la media annuale dei giovani che frequentano i corsi di
Istruzione e Formazione tecnica superiore (IFTS);
- innalzare dall'1% al 10% (+900%) la quota di giovani inseriti in percorsi di alternanza
scuola-lavoro;
- aumentare velocemente, da 230mila a 540mila (+135%), il numero dei posti di stage di orientamento
e di formazione.
Come certamente non meno sfidante è l'obiettivo che ci siamo posti per il
potenziamento del sistema di R&S del Paese, obiettivo che ci dovrà far raggiungere entro la
fine del decennio in corso un rapporto tra spese di ricerca e PIL del 3%, di cui l'1% a carico del
settore pubblico ed il 2% a carico di quello privato.
Come ho detto, su tutti questi fronti ci sono finalmente ragioni per guardare al futuro con
ragionevole ottimismo. Vorrei condividere con voi alcuni elementi di una possibile valutazione comune
sui due grandi campi di intervento che ci vedono fortemente impegnati: capitale umano e
competitività.
Formare e valorizzare il capitale umano
A questo punto vorrei condividere con voi alcuni elementi sul rapporto tra capitale umano, formazione
e lavoro, il tema del dibattito di oggi. Formare e valorizzare il capitale umano - già lo
abbiamo visto - significa incidere positivamente su un fronte molto vasto di interessi e bisogni
della collettività.
Non è infatti solo di più ricercatori, di più tecnologi e di più
ingegneri che abbiamo bisogno, ma anche di medici migliori, di addetti alla protezione ambientale
più aggiornati, di forze dell'ordine competenti e bene addestrate…
Penso poi alle nuove professioni che saranno richieste in misura crescente dall'area dei servizi,
dalla finanza, dalle assicurazioni e naturalmente dall'area delle tecnologie dell'informazione e
dalle telecomunicazioni. La qualità del capitale umano riguarda settori di enorme
sensibilità sociale accanto a settori di cruciale importanza per competere nei servizi e nella
produzione industriale.
In questo scenario, l'offerta educativa e formativa non costituisce più un riferimento
sufficiente per orientare le politiche nazionali in società, come la nostra, caratterizzate da
una crescente mobilità sociale, da forti dinamiche dei fattori demografici, da una sempre
maggiore integrazione dei mercati del lavoro, da una notevole evoluzione della domanda proveniente
dal mondo produttivo e dalla costante pressione della competizione globale.
Diventa, dunque, un impegno prioritario poter misurare la domanda di istruzione e formazione,
così come essa si determina nei diversi segmenti della popolazione in relazione alle fasce di
età, ai livelli di istruzione ed al grado di partecipazione al lavoro.
Adottare questo metodo, così come abbiamo proposto ai nostri partner europei, raccogliendo un
incoraggiante consenso da parte di tutti, significa poter mirare meglio in futuro gli interventi
correttivi, spostando l'asse strategico da un accrescimento puramente quantitativo degli investimenti
nei sistemi educativi e formativi ad un aumento dell'efficienza e dell'efficacia di questi
investimenti. Si tratta, come potete facilmente capire, di una svolta molto importante.
La Legge di riforma della scuola, che sta adesso passando da una positiva fase di sperimentazione
alla fase di effettiva attuazione che avrà un momento qualificante proprio nella
istituzionalizzazione dei percorsi formativi in alternanza a partire dai 15 anni, rappresenta il
primo strumento organico per collegare istruzione, formazione e lavoro.
La Legge 53 è l'elemento fondante di un sistema educativo e formativo pienamente inserito nel
quadro dell'apprendimento permanente. E l'Unione Europea ha espresso giudizi molto positivi in sedi
tecniche e politiche su questo nuovo impianto.
Istruzione, formazione e territorio
Ma c'è un altro elemento di grande importanza che vorrei portare alla vostra attenzione. La
Legge 53 costituisce una grande opportunità per realizzare il servizio educativo sul
territorio, valorizzandone le vocazioni e le potenzialità nel quadro della riforma federalista
dello Stato.
È questa, dunque, l'occasione per ripensare l'intera organizzazione della rete scolastica e
dell'offerta dei centri e delle agenzie di formazione professionale. In tal modo potremo finalmente
affrontare un problema che da lungo tempo suscita le giuste preoccupazioni del mondo imprenditoriale:
condividere, con una visione comune delle esigenze del mondo del lavoro, gli standard delle
competenze linguistiche, scientifiche, tecnologiche e storico-socio-economiche che tutti i giovani
devono possedere a conclusione dei percorsi, almeno triennali, di istruzione e formazione
professionale.
Nel mondo del lavoro, alcuni, ad esempio la Confindustria, stanno mettendo a punto proposte per
promuovere nuovi modelli di organizzazione del sistema educativo per collegare strutturalmente non
solo le scuole, le agenzie formative e le imprese, ma anche le università e i centri impegnati
nella ricerca scientifica e nel trasferimento tecnologico. Queste proposte meritano grande
attenzione.
Cito, tra le tante proposte concrete, i progetti per sviluppare l'alternanza scuola-lavoro attraverso
la metodologia dell'impresa formativa simulata, con il coinvolgimento di migliaia di giovani ai quali
potrà essere offerta la possibilità di acquisire competenze specialistiche per lo
sviluppo economico del territorio, attraverso il collegamento dell'istruzione e della formazione
tecnica superiore con il Piano nazionale per la ricerca.
Dal 2001 al 2003, nel quadro delle intese di collaborazione scuola-università-impresa, sono
state realizzate 350 intese locali (con un aumento del 40%); sono stati inseriti in stage di
orientamento 270mila giovani (+29%); sono stati organizzati stage di formazione che hanno coinvolto
229mila giovani (+43%); sono stati interessati ad interventi di orientamento nelle scuole medie
465mila studenti (+24%); sono passate da 1.236 a 1.486 (+20%) le scuole coinvolte nei progetti
Qualità; sono divenuti 400mila (+15,7%) gli adulti in formazione permanente.
A questi dati voglio aggiungerne un altro di particolare significato: nel periodo 1998-2000 i giovani
iscritti ai corsi IFTS erano poco più di 12mila; nel periodo 2001-2003 il loro numero è
salito a poco meno di 30mila. Senza parlare del netto miglioramento che stiamo registrando negli
indici di occupabilità dei giovani che completano i corsi IFTS e nella forte riduzione del
tempo che intercorre con il loro inserimento nel mondo del lavoro. Risultati che sono stati resi
possibili grazie anche al rapporto più stretto con le parti sociali per definire le figure
professionali di riferimento del sistema dell'istruzione e della formazione e per lanciare progetti
pilota che promuovano l'alternanza scuola-lavoro come modalità di esercizio del diritto-dovere
alla formazione per almeno 12 anni.
Le intese operanti - aggiungo: con ottimo successo - tra il MIUR e la Confindustria e tra il MIUR e
l'Unioncamere sono, io credo, la migliore testimonianza che agli intendimenti politici iniziali siamo
oggi in grado di far seguire azioni concrete.
Università, mondo del lavoro e competitività
Un altro spunto di riflessione voglio proporvi sull'università, che ha una grande
responsabilità nella crescita e maturazione della nuova classe dirigente che guiderà il
nostro Paese in futuro.
Ebbene, a differenza di quanto è avvenuto in altri Paesi, noi non abbiamo sviluppato in
passato un proficuo e moderno rapporto tra mondo universitario e mondo del lavoro, per esempio
favorendo ambiti di collaborazione con le imprese e gli investitori privati che sarebbero stati
interessati, io credo, a partecipare a progetti di comune interesse. Per l'università si pone
oggi una sfida complessa.
Il livello minimo dei laureati, dei dottorati e dei ricercatori necessari affinché il nostro
sistema economico possa competere sulla scena internazionale dovrà essere più elevato
di quello attuale.
Voglio, tuttavia, chiarire cosa intendiamo quando diciamo, tutti d'accordo, che l'università -
come del resto l'intero sistema scolastico - deve rispondere sollecitamente a questa accresciuta
domanda di saperi e di competenze. Significa fare in modo che scuola e università offrano un
vasto ventaglio di conoscenze di base necessario oggi per operare in un mondo in continuo e profondo
cambiamento, un mondo che richiede doti di comprensione dei contesti di riferimento, attitudini alla
diagnosi dei problemi ed alla loro soluzione, capacità di confronto con culture e tecniche
diverse.
Oggi le competenze tecniche non bastano più. È necessaria una dimensione culturale e
valoriale più ampia. Ciò detto, il ruolo sociale dell'università si compie nella
competitività e nella capacità di innovazione della comunità territoriale nella
quale è inserita. Ad esempio, nel creare un circolo virtuoso tra formazione universitaria,
start up tecnologici, iniziative imprenditoriali, attrazione di capitali privati da altre regioni e
dall'estero, maggiore e più qualificata occupazione. Perciò io credo che in futuro
dovremo operare per un rafforzamento del rapporto tra università e mondo produttivo fondato e
radicato nella cultura del territorio.
Altro punto. Si deve accrescere la partecipazione del capitale privato nell'università. Per
esempio, per rendere possibile un rafforzamento della ricerca in ambito universitario, favorire il
co-finanziamento di progetti comuni oppure l'investimento nelle strutture e nelle attrezzature
scientifiche.
Dobbiamo, tutti insieme, progettare l'università di domani, mettendo a fattor comune le
rispettive esperienze utili da un lato per valorizzare i migliori talenti nazionali, favorendo la
loro propensione alla mobilità nel corso del ciclo di studi, ma allo stesso tempo per attrarre
talenti stranieri specie nei settori scientifico-tecnologici dove più grave è oggi il
calo delle "vocazioni".
Ed è proprio la mancanza di una cultura diffusa sui valori della ricerca scientifica e
tecnologica che rappresenta, io credo, l'anello debole del rapporto tra ricerca e mondo
produttivo.
Da questo punto di debolezza sono discesi in passato la mancata focalizzazione della ricerca su
settori strategici per lo sviluppo del Paese, la conseguente perdita di competitività di
settori ad ampio contenuto di conoscenza e di tecnologia e, in ultima analisi, la caduta, nell'arco
degli anni Novanta, del rapporto tra spesa in ricerca e PIL. Questa è la pesantissima
eredità che ci siamo trovati a gestire mentre la sfida della competitività per il Paese
diveniva via via più ardua. Per questo uno dei nostri primi impegni di Governo è stato
quello di definire una nuova strategia per il potenziamento della ricerca che si ponesse in termini
di discontinuità rispetto alle politiche del passato.
Con le Linee-Guida per la ricerca approvate nell'aprile 2002 e con il Piano nazionale della Ricerca
che stiamo ultimando in questi giorni abbiamo considerato per la prima volta in Italia la ricerca
come priorità strategica per lo sviluppo e la competitività del Paese.
Al tempo stesso abbiamo rilanciato la valenza dello sviluppo della conoscenza come valore intrinseco
della società, anche al di là di ricadute economiche che essa comporta, nonché
il ruolo della ricerca concepita come strumento per migliorare la qualità della vita dei
cittadini per quanto riguarda la salute, la sicurezza, la tutela ambientale, la valorizzazione dei
beni culturali.
L'inversione di tendenza rispetto al passato si è già registrata in numerose azioni
concrete: dai distretti tecnologici - un modello fortemente innovativo fondato sulla sinergia tra
università, enti di ricerca, fondazioni, imprese, enti locali - alla concentrazione delle
risorse su grandi progetti strategici; dall'aumento del numero dei dottorati di ricerca, da 3.000 a
8.000, che ci ha portato ai livelli dei più importanti Paesi europei, alla mobilità dei
ricercatori nell'ottica di una sempre maggiore internazionalizzazione.
Le prospettive
Sono dunque molti i segnali che dobbiamo cogliere, e il convegno di oggi ha dato un ulteriore
contributo in questa direzione. Scuola, università e ricerca stanno recuperando quella
"cultura del lavoro" che sembravano aver perso. E anche in Italia la distanza tra la cultura del
"sapere" e la cultura del "saper fare" sta finalmente tornando a ridursi.
Quello che abbiamo intrapreso è un percorso comune di cooperazione e comunicazione tra i
principali attori del sistema dell'istruzione e della formazione professionale e quelli che operano
nell'ambito dell'università e dei centri di ricerca. Un percorso che deve vedere il
coinvolgimento attivo delle parti sociali nella definizione dei fabbisogni formativi e, più in
generale, nella costruzione, metodica e continua, del nuovo quadro di riferimento all'interno del
quale opereremo tutti per fare davvero del capitale umano la ricchezza del nostro Paese. Cioè
per assicurare al Paese sviluppo e coesione sociale.